giovedì 7 maggio 2009

Solo un momento prima di lasciare Gulu


Questi sono gli ultimi pensieri scritti appena prima di lasciare la città che mi ha ospitato per un breve periodo...troppo breve. Sono pensieri che prendono forma seduto dentro un internet poin di Gulu town. Dalla porta vedo molte immagini e penso...

Ho dato l’ultimo sguardo a questa città cosi “africana”, e sento di provare già nostalgia. Lascio una città che penso d’aver vissuto e non solo sfiorato. La verità è che, puoi essere in Africa senza vivere l’Africa. Non sono molti, ma se vuoi, puoi frequentare locali per bianchi, con feste per bianchi e cibo per bianchi, dove puoi avere anche l’illusione che, alla fine, essere in Europa o essere in Africa , non cambia poi tanto. C’è una sorta di città bianca virtuale in cui si rifugiano i clandestine dell’incontro. C’è un occidente fantasma dietro un’Africa di carne. Ho visto dei bianchi durante la mia permanenza qui a Gulu, ma so perfettamente che sono molti di più. Dove sono tutti? Sono impegnati ad evitare l’incontro, a scrollarsi da dosso il peso della differenza e del salto culturale. È la gente che non saluta, gente che porta troppo occidente con , senza lasciare spazio per altro e per l’altro. Il rischio è quello di scivolare in questo mondo parallelo, in cui si entra solo con un passaporto infalsificabile: la pelle bianca. La decisione dello stile di vita dell’esperienza, sta però a monte. Si decide prima di partire da che parte stare. Si tratta poi, di essere fedele alla scelta fatta. Nel mio piccolo, ho cercato di essere fedele alla mia scelta di stare con la gente, con qualche eccezione per una birra ogni tanto. La mia esperienza di tirocinio, lo dico qualche minuto prima di lasciare questa città, è stata soprattutto vissuta nei villaggi, tra le capanne e il fango. La stagione delle piogge regala degli sfoghi della natura, durante i quali si può scorgerne una potenza che ci sorpassa. Dietro di però, lascia strade impercorribili di fango rosso scivoloso come neve, ma qui le catene non bastano. È un fango che resta addosso, ti colora la pelle e i vestiti. Li riconosci subito i bianchi che stanno con la gente. Non dagli occhi, non dai vestiti, non dallo zaino, ma dai piedi. I loro sandali sono inguardabili, ma carichi di strada fatta. Le loro unghie sono rosse e sporche e, non di rado, sono piedi feriti. Certo, sono piedi, che non possono essere paragonati a quelli degli africani, callosi, neri, e pieni di cicatrici. Sono piedi piatti, abituati al contatto con la terra, il fango, l’acqua, le pietre e le spine. Sono piedi che camminano liberi da restrizioni e senza protezioni. I loro, sono piedi esperti. Camminano nudi per sentieri che, solo i loro occhi possono vedere. Sono prospettive misteriose all’occidentale. Pur nelle enormi differenze, questi piedi sono il simbolo dell’incontro.
Piedi bianchi, fragili e insicuri, e piedi neri, esperti e temprati. Piedi che hanno camminato perché’ gli occhi potessero incontrarsi. Sono piedi al servizio. Lavoro davvero faticoso e sporco il loro, ma assolutamente indispensabile. Ora torno, con i mie sandali sporchi ancora addosso, e con gli stessi piedi, mi auguro sempre di compiere passi d’incontro… ovunque io vada.
…e anche a voi va questo augurio.
Diego

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