giovedì 24 settembre 2009

La Storia di Richard


Un’altra storia, une delle tante storie che si possono sentire in nord Uganda. Questo racconto è frutto di un’intervista fatta in occasione del mio ultimo viaggio a Gulu da cui è nato un progetto rivolto ad ex bambini soldato. Da quell’esperienza è nato anche un video che si intitola: “Sette Storie tra…Troppe” che raccoglie la sintesi di tutte le interviste e racconta la situazione in nord Uganda. Dopo Vicky, ecco la storia di Richard, un altro sopravvissuto alla guerra.


Mi chiamo Richard, mi hanno rapito nel 1995 da Atiak e abbiamo lasciato Atiak dirigendoci in Sudan. Abbiamo combattuto tantissimo e poi siamo ritornati qui in Uganda.. Avevo molte ferite, alcune le puoi vedere anche adesso. Quando sono tornato mia mamma e mio papà erano morti. Adesso ho la mia nonna e mio nonno, e vivo con loro e tutti e due sono deboli e anch'io lo sono e non abbiamo nulla da fare. Abbiamo molti problemi. Non abbiamo scelta della vita, e non so come potete aiutarci. Anche il governo, come ci può aiutare? Come può aiutare le persone tornate dal Bush? Quando mi hanno rapito ero uno studente. Studiavo in Atiak, in P4, in una scuola che si chiama Olyà P7 school. Quando mi hanno rapito, mio fratello più grande è stato ucciso. Quel giorno anche altri sono stati rapiti e sono morti subito dopo, sono rimasto solo io. Eravamo in sette e sono rimasto solo io. Da lì mi hanno portato in Sudan e sono stato lì per tre anni. Poi sono tornati in Uganda e sono stato qui per un anno per poi tornare in Sudan per altri quattro anni. Sono tornato ancora in Uganda, più precisamente a Soroti, dove abbiamo combattuto. Da Lira siamo andati a Kitgum e anche là abbiamo combattuto. poi ci siamo spostati in un posto chiamato Pader. Da lì poi sono scappato sono tornato a casa, e ho trovato molti problemi. Senza mamma e senza papà, senza contare il fatto che non avevo nulla ed ero debole. Mi sono fatto queste ferite, le vedi. Non pensavo di poter sopravvivere. Mi davano da mangiare ma non potevo mangiare. Non so nemmeno come spiegartelo. Non avevo la lingua perché mi era stata tagliata. Fortunatamente sono guarito bene. Parlo, mangio ma non ho i denti. Vedi alcune cicatrici sulla testa e sulla guancia. Ne ho anche sul torace sulle braccia. Ne ho dappertutto anche nelle gambe. Mi hanno sparato in bocca mentre camminavo dal Bush. Siamo entrati in un'imboscata della UPDF. Eravamo in 15 quel giorno, ed hanno iniziato a spararci addosso. Mi sparavano ma sono stato fortunato e sono scappato. Le altre 14 persone sono morte. Vedi, quando sono tornato a casa le persone del mio villaggio non mi conoscevano neppure. Iniziai a fare domande a chiedere della mia famiglia, ma loro non mi riconoscevano. La mia vita adesso è di Dio, va avanti con la forza di Dio e non con la mia forza. Senza Dio non posso vivere. Sono stato nel Bush per nove anni e sono tornato nel 2004. Dopo due settimane dal mio rapimento, mio nonno stava andando nei campi e i ribelli lo hanno trovato e gli hanno tagliato la mano. Due ragazzi che camminavano con lui sono scappati mentre lui è rimasto. Gli hanno tagliato la mano con una zappa che aveva per zappare. Quelli che hanno fatto questo erano gli stessi ribelli che mi hanno rapito. Adesso lui è debole, e anch'io sono debole. C'è solo la nonna che aiuta tutti e due e tutti noi viviamo con le sue forze. Lei ha 49 anni. Ci sono anche dei bambini qui, per questo se qualcuno può aiutarci sarebbe bello. Perché è difficile aiutare questi bambini, perché noi non abbiamo niente. Ciò che danno per aiutare le persone ritornate dal Bush (il package) io non l’ho mai ricevuto. Ho ricevuto solo le cose che potete vedere qua in casa mia: il materasso, la zanzariera eccetera, che mi sono stati dati dal centro di riabilitazione e si chiama World Vision. Mi hanno aiutato anche ad avere questa casa. Vivo con le cose che vedete qui, con le cose che avete visto che sto facendo. È questo che mi fa vivere. Se mia nonna non riesce a trovare nulla per la nostra famiglia ci penso io, ci sono io. Se qualcuno può aiutarci, per noi potrà esserci un futuro migliore perché la nostra vita è complicata. Anche i vicini m'insultano perché tutti noi siamo disabili e poi loro non vogliono vederci. Quando vedono qualcuno con noi, tipo voi, sanno subito che ci arrivano degli aiuti. Ma non è vero! Non so cosa voi potete fare per noi, per la nostra vita. Forse le persone che non ci aiutano pensano che noi non abbiamo abbastanza problemi ma ho talmente tanti problemi, che a volte non riesco nemmeno a mangiare. Vado a dormire senza mangiare. Io vedo ancora molto futuro davanti a me e ci sono tante cose che non ho fatto ancora. Si, sono debole e ho bisogno di aiuto e sarò felice di riceverlo. Il lavoro che sto facendo si può fermare in un minuto. Oggi non ho lavorato e domani non potrò mangiare. E così non posso fare nulla, non posso farci nulla. Voi potete vedere come vivo. Come posso vivere meglio? Posso dire tante cose ancora..... ma non so, se avessi avuto più tempo sarebbe stato meglio. Perché siete venuti qui? siete venuti qui solo per capire la mia storia oppure.....? oppure avete visto cose brutte e volete aiutarmi? Avete visto la mia vita, come cammino, la mia casa, i miei vestiti, insomma avete visto tutto. Dovete vedere come potete aiutarci, per esempio aiutare a trovare un posto dove stare perché non abbiamo casa. Questa non è la mia. Se dovessero dirmi di lasciarla e di tornare nel villaggio, non avrei la forza per coltivare nei campi. Chi potrà aiutarmi? chi potrà aiutarmi a trovare cibo per mangiare? Se trovassi una casa potrei vivere bene. Se mi danno tutte queste cose sarebbe meglio. Io sono ancora giovane, quest'anno compio vent'anni. Ho ancora un futuro, e questo è un pensiero a cui dedico molto tempo. Devono trovare una strada per me per il mio futuro.

giovedì 3 settembre 2009

La Storia di Vicky


Questa è solo una parte delle sette storie che ho ascoltato durante la mia permanenza in Uganda la scorsa estate.
Sono sette vite accomunate da un’unica storia…la guerra.
Vicky è una ex bambina soldato, rapita dai ribelli quando aveva solo 9 anni. Ha accetto di condividere la sua storia, quello che è stata costretta a vivere durante la guerra. Ha parlato con fatica. Teneva lo sguardo fisso nel nulla mentre ricordava quei momenti, senza lasciar trasparire emozioni. E’ con rispetto che ho ascoltato le sue parole e con lo stesso rispetto le regalo a voi. Non è di facile lettura per due motivi: per il contenuto e perché ho voluto essere fedele alle sue parole, senza sofisticazioni e eccessivi aggiustamenti.

Mi chiamo Vicky. Mi hanno presa nel 1996, quando avevo solo nove anni e sono tornata nel 2000. Mi hanno rapita di notte, verso l'una. Abbiamo camminato tanto, fino al mattino. C'era un anziano che hanno preso insieme a noi, poi l'hanno ammazzato perché hanno visto che era debole e non camminava. Alle 11 della mattina dopo hanno rilasciato alcune persone. I ribelli ci hanno chiesto se volevamo restare con loro o se volevamo tornare indietro e noi, vedendo che avevano ucciso l'anziano abbiamo avuto paura, e così abbiamo risposto che volevamo restare. Abbiamo camminato con altra gente fino al punto in cui ci siamo uniti ad altre persone. Eravamo in tanti ed era circa l'una del pomeriggio. Io e mia sorella non parlavamo Acholi, che era la loro lingua, bensì Madi. Mi hanno picchiata perché parlavo Madi, sino che mia sorella ha cominciato a parlare Acholi. Dopo avermi picchiato mi hanno lasciata. Hanno detto che dovevamo lavarci e così abbiamo fatto. Io in quel momento ero morta perché mi hanno picchiata tantissimo, e non potevo più muovermi e non avevo nemmeno la forza di fare il bagno. Hanno iniziato a picchiarci all'una sino alle tre. In quel momento ero morta e alle sei sono risuscitata, (mi sono ripresa). Un capo dei ribelli ha chiesto dove fossi, mi cercavano. È venuto da me e mi ha chiesto dove fossi stata, io non ho risposto, dopo di che mi hanno dato il cibo da mangiare ma non ero capace. Quella sera i ribelli hanno preparato dell'acqua calda per fare la doccia. Mi hanno fatto anche una puntura dopo la doccia. Il giorno dopo ci hanno dato anche delle medicine. Ci sentivamo meglio. Quel posto era in Uganda e stavamo bene lì. Non c'erano problemi. Siamo stati in Uganda per due anni mentre Kony (capo dei ribelli) era in Sudan, e diceva: tutti questi ragazzi che avete rapito li dovete portare qui da me in Sudan. Questi ragazzi erano destinati a fare i bambini soldato. Noi siamo state portate la nel 1998 per essere addestrate nel bush (boscaglia dove i ribelli vivono e combattono), per imparare ad usare le armi. Non c'era un posto dove poter stare, ero continuamente sballottata. Poi sono andata a vivere con un uomo, era un dottore. Avevo 11 anni. Non sapevo cosa avesse in mente quell'uomo, quindi ero tranquilla. Ad un certo punto, ha organizzato con le sue mogli dei lavori e io sono rimasta da sola con lui. Eravamo io, lui e una moglie. Lui ha detto a questa moglie di preparare il letto per me, poi ha detto ancora alla moglie di dirmi che dovevo andare preparare il letto per i bambini. Al ritorno, quell'uomo era già sul mio letto che mi aspettava. La moglie aveva il compito di chiudere la porta della stanza. Io non sapevo che lui fosse nella mia stanza, pensavo ci fosse ancora la moglie che preparava il letto. Ad un certo punto la moglie ha spento la luce e ha chiuso la porta. Io pensavo: come posso uscire! Perché hanno fatto questo? Parlavo da sola. Mi sono smarrita in quel buio, perché cercavo una via di uscita ma non sapevo dov'era la porta. Lui era appoggiato al pilastro e mi aspettava, mentre io camminavo a tentoni nel buio. Mentre camminavo lui mi ha afferrata e mi ha buttata sul letto. Ha iniziato a fare i suoi comodi sino che ne ha avuto abbastanza. Io non potevo nemmeno camminare dopo questi abusi, ma lui al mattino era già fuori e mi ha lasciata sul letto. Lui ha fatto la doccia e poi è uscito. Una donna mi ha chiesto se volevo fare la doccia, ma non potevo parlare. Io non volevo fare quelle cose con lui, così lui ha tentato di strozzarmi. Per non farmi gridare mi ha infilato un fazzoletto sino in gola. Io ho rifiutato di fare la doccia, sono caduta e ho iniziato a camminare gattoni fuori dalla capanna. Sono stata così per tre giorni, senza lavarmi. Puzzavo come non so cosa. Sono entrata nella camera dove dormivamo e poi un'anziana è venuta e ho iniziato a piangere. Mi ha chiesto che cosa fosse successo. Piangevo senza parlare mentre lei preparava dell'acqua calda per massaggiarmi e lavarmi. L'ha fatto per tre giorni. Dopo questo tempo mi sentivo un po' meglio, ma non camminavo ancora bene. Anche oggi, a volte le gambe mi fanno molto male. Nel frattempo Kony ha detto che dovevano essere allontanate le ragazze da quell'uomo che ha abusato di me, perché sospettavano che fosse uno stregone. Sono stata portata a casa di un altro uomo e sono stata da lui per circa due anni perché dicevano che l'uomo che mi ha violentato aveva la sifilide e che quindi ero malata. Poi ho conosciuto il mio attuale marito, Daniel. Non eravamo insieme da tanto quando siamo ritornati in sud Sudan. Siamo restati lì poco tempo e subito ci hanno comunicato che dovevamo ritornare in Uganda. Abbiamo camminato tanto, e in quel tempo sono rimasta incinta di Joyce. Durante la gravidanza di Joyce ero in pessime condizioni. A volte andavo a dormire senza mangiare perché stavo male. La pancia cresceva lo stesso, così è nata Joyce. Quando è nata ho sofferto tantissimo. Mi sono subito resa conto che la nostra vita era in pericolo. Nessuno laggiù mi aiutava, e poi Kony ha detto che dovevamo ancora ritornare in Sudan ma ho pensato tra me: “se io non morirò in questo viaggio, morirà sicuramente la mia bambina”. Devo tornare a casa, devo scappare. In quel momento Daniel non aveva capito le mie intenzioni. Io nel 2004 sono tornata a casa. Joyce era piccolissima, meno di tre anni. Tre giorni dopo la nascita della mia bambina ho iniziato camminare. Quando sono arrivata a casa non volevo mangiare e fare niente perché pensavo che le cose che mi davano da mangiare erano avvelenate. Non ero stata curata. Avevo ancora il sangue del parto, perdevo ancora sangue. Mi hanno aiutata, mi hanno messo acqua calda per massaggiare la pancia (usanza acholi) hanno lavato la bambina e poi me. Dopo, una volta lavata hanno cucinato tanti tipi di cibo, Ma mi rifiutavo di mangiare e li ho accusati di volermi avvelenare. Hanno chiesto ad un anziano che sapeva la mia lingua, di parlarmi. Avevo in testa tutte le idee che mi avevano inculcato i ribelli. Mi hanno portato da lui, in un posto che si e poi l'anziano mi ha detto: “tu pensi si sia del veleno nel cibo? benissimo, allora lo mangeremo insieme”. Tutte le cose che mangiava lui le mangiavo anch'io. Sono stata lì forse cinque giorni. Mi hanno fatto delle punture è mi sentivo meglio. Sono stata lì tre giorni, ma hanno detto che non potevo stare da sola e quindi mi hanno portata a in una città del nord, dove c'erano altri ragazzi. Sono stata lì ma non avevo nessuno, non conoscevo nessuno. Non c'era nessuno originario delle mie parti che poteva venire a trovarmi. Pensavo: “non ho più genitori! Non ho più nessuno!” Vedevo i parenti di alcuni che venivano a trovarli e portavano cose da mangiare ecc, allora pensavo: “mi lasciate qui perché non ho nessuno”. Sono stata in li per sette mesi. Una volta iniziato l'ottavo mese ho chiesto di poter tornare a casa mia. Dicevo: “se sapete che non ho nessun posto dove andare, dovete portarmi a Gulu, nel centro per ex bambini soldati che si chiama Gusco. Li è abbastanza vicino a casa mia, così se i miei genitori fossero stati ancora vivi avrebbero potuto trovarmi, oppure avrei potuto parlare alla radio ( quelli che tornano possono parlare alla radio per comunicare che sono ancora vivi, per farsi raggiungere dai parenti ). Loro mi hanno detto che non avevo più nessuno. Un giorno un soldato che veniva dal mio paese, ha detto che mi conosceva. Mi avrebbe preso e portato a casa mia dai miei genitori, ma avrebbero dovuto pagarlo, per i soldi che erano serviti per il trasporto sino al paese. Quando ho sentito che avrei dovuto pagare, sono andata allo staff di Gusco perché ho pensato che mi voleva riportare ancora nel bush. Anche lo staff pensava quello che pensavo io e così fu arrestato. Ero convinta di non aver più nessuno della mia famiglia ma volevo andare ugualmente il mio paese. Cercavo un aiuto. Nel gennaio del 2005, sono tornata, in un primo momento, i miei parenti sono scappati. Mio fratello era a casa ma mio papà e mia mamma erano morti. Appena mio fratello mi vide scappò. La zia, sorella di mia mamma, ha visto la situazione. Le donne erano in piedi con l'intento di scappare quando è arrivata la macchina che mi portava. Ho visto mia sorella che diceva: “questa somiglia a qualcuno, somiglia a Vicky, poi mia zia mi ha riconosciuto. Mio fratello, dopo essere scappato è tornato. Ho chiesto: “perché scappavi? adesso sono cambiata, tu credi che io sia ancora una ribelle della LRA? perché devi scappare? sono inutile per la vostra famiglia?” lui ha detto: no! Sono scappato perché ho pensato che fossero venuti a rapirmi, non sapevo che fossi tu”. Nessuno dei miei parenti si è degnato di venirmi a vedere. Ci sono rimasta malissimo perché voleva dire che nessuno mi voleva bene. Mi dissi: “dovevo rimanere lì, nel bush, così se fossi morta, sarei morta tranquilla. Adesso sono qui e loro non mi vogliono”. Altri miei fratelli sono venuti a trovarmi mentre dormivo. Alla mattina, tutti passavano senza salutarmi. Non mi salutava nessuno. Mio cugino è venuto a trovarmi. Persone che venivano da lontano e le ragazze con cui sono cresciuta, sono venute a vedermi ma i miei parenti no! Sono stata lì per una settimana. Volevo tornare a Gulu, dalle suore che mi hanno insegnato a cucire. Ho visto che anche Daniel era tornato, e poi eravamo insieme anche nel bush. Dovevamo stare insieme perché non potevo portare mia figlia continuamente in giro, perché noi donne che siamo tornati dal bush con figli, non possiamo trovare un altro uomo, non ci vogliono. Potevano insultare mia figlia, per tutte le cose che avevamo fatto noi nel bush. Queste cose possono ricadere sulla vita di mia figlia. Daniel non può maltrattare la bambina, e sua figlia. Così abbiamo iniziato a vivere insieme, sino ad ora. Questa è la mia storia.

martedì 26 maggio 2009

La "Casita"

Negli ultimi 20 anni, gli studi condotti sul concetto di resilienza sono aumentati.
La resilienza suscita un forte interesse e ha permesso agli educatori e pedagogisti interessati di disporre di una più ampia bibliografia, soprattutto in inglese e in francese. Attualmente la letteratura internazionale mostra come in molte parti del mondo, dal Cile all’India, da Taiwan alla Francia, dal Libano alla costa D’Avorio, dal Rwanda alla Bosnia Erzegovina, i temi connessi allo studio delle situazioni di alta vulnerabilità e alle possibili forme di aiuto, contemplano
il concetto di resilienza come uno dei fondamentali punti di vista dai quali procedere per favorire processi di reintegrazione. Le esperienze dei protagonisti, che da molti anni operano in zone di guerra sono state rilette e interpretate e hanno portato e hanno portato alla definizione di alcuni modelli applicativi. Sono sostanzialmente due: il modello francofono realizzato dal Bureau Catholique International de l’Enfance (BICE) di Ginevra, ovvero la Casita, e il modello anglosassone della Fondazione Bernard van Leer. Secondo Stefan Vanistendael (1994), responsabile del settore di ricerca e sviluppo e deputato del Segretariato Generale della BICE, la resilienza ha due componenti fondamentali:
- La resilienza alla distruzione e la possibilità di preservare l’integrità nonostante circostanze difficili
- la capacità di costruire positivamente la propria vita nonostante le situazioni difficili
La BICE ha cercato di elaborare una sintesi, un modello ad uso dei professionisti, utilizzata per la prima volta in Cile, ecco perché è stata chiamata “Casita (piccola casa) . Questo modello è utile a descrivere eventi e orientarsi.
La Casita è una sintesi di alcune tappe che, secondo Vanistendael, meritano un po’ di attenzione per coloro che desiderano costruire o rafforzare un processo di resilienza.
Ecco come è composta la Casita:
Il Suolo: corrisponde alla soddisfazione dei bisogni primari come l’alimentazione il sonno, protezione ecc.
Le Fondamenta: sono costituite dall’accettazione totale della persona ( nella misura possibile). E’ la possibilità di usufruire di contatti informali di una rete delle relazioni solidali (famiglia, amici e vicini ). È in buona sostanza un percorso di accoglienza.
Il Giardino: Qui si trova la capacità di scoprire un senso una coerenza del proprio percorso di vita. Lo si può fare attraverso il gioco, lo studio, il lavoro.
Il Primo piano: E’ in quest’area che si trovano la stima di sé, le attitudini le competenze l’humour. È la possibilità di progettare, di vedersi nel futuro. Aumenta la partecipazione e promuove la responsabilità del proprio agire e essere.
Il Granaio: Qui sono collocate tutte le altre esperienze da scoprire, a seconda del contesto .
Ecco in breve la casita, nel raccontare mi sono aiutato con un testo di Elena Malaguti, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, “Educarsi alla Resilienza” (Erikson). Lo consiglio a chi volesse saperne di più sul concetto di resilienza.
Buon approfondimento
Gigo

mercoledì 13 maggio 2009

Vivere da resilienti

Sono passati ormai otto mesi dal mio rientro dall'Africa e tutte le esperienze, gli incontri e le vite sfiorate prendono altre colorazioni. Oggi devo pensare alla tesi, ma non è facile per me trasformare in “scienza” o tradurre in linguaggio tecnico ciò che è veramente stato. Io le cose preferisco raccontarle, scriverle, lasciare che le parole scorrano nomadi, tentando di dare
sapore ai miei sentimenti. Le parole hanno davvero una forza grande, riescono a compiere cammini che pochi altri posso percorrere. Preferisco narrare, con la penna e la carta, storie realmente accadute o semplicemente descrivere ciò che provo e che vedo. Anche la scrittura necessita di una tecnica ma, al mio livello, è decisamente più libera e anarchica ...Ma torniamo alla tesi.
Il punto focale della tesi è il concetto di “resilienza” , parola presa i prestito dalla fisica, che sta ad indicare la capacità di un corpo di mantenere la sua forma anche dopo aver subito un urto improvviso e violento. É un concetto ripreso dalla psicologia e successivamente dalla pedagogia, e riferito all'essere umano suonerebbe così:
“è il processo che permette la ripresa di uno sviluppo possibile dopo una lacerazione traumatica e nonostante la presenza di circostanze avverse (Boris Cyrulnik),
oppure ancora:
“ è la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l'aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare a un esito negativo (Elena Malaguti).
Mi sembra interessante approfondire questa tematica proprio perchè le persone con cui ho condiviso del tempo, avevano subito fortissimi traumi: la guerra.
Ex bambini soldato, vittime e carnefici unificati nello stesso essere. Possiamo parlare tranquillamente di un doppio trauma. Ci sono dei modelli che possono essere applicati dagli educatori. Quando parlo di educatori, parlo di persone che non si muovono per puro spirito “vocazionale” verso l'altro, non parlo di volontari improvvisati ( con tutta la stima per questi ultimi). Con il temine educatore mi riferisco ad una figura professionale, che abbia compiuto un cammino personale di crescita umana, utilizzando gli stessi mezzi appresi negli anni di studio,e che un giorno tenterà rispettosamente di utilizzare, conformandoli alla irripetibile soggettività di un altro essere umano. Nel prossimo post cercherò di raccontare un modello pedagogico fondato sul concetto di resilienza... “LA CASITA”, che è quello che ho cercato di seguire, adattandolo alla situazione di Gulu.

giovedì 7 maggio 2009

Solo un momento prima di lasciare Gulu


Questi sono gli ultimi pensieri scritti appena prima di lasciare la città che mi ha ospitato per un breve periodo...troppo breve. Sono pensieri che prendono forma seduto dentro un internet poin di Gulu town. Dalla porta vedo molte immagini e penso...

Ho dato l’ultimo sguardo a questa città cosi “africana”, e sento di provare già nostalgia. Lascio una città che penso d’aver vissuto e non solo sfiorato. La verità è che, puoi essere in Africa senza vivere l’Africa. Non sono molti, ma se vuoi, puoi frequentare locali per bianchi, con feste per bianchi e cibo per bianchi, dove puoi avere anche l’illusione che, alla fine, essere in Europa o essere in Africa , non cambia poi tanto. C’è una sorta di città bianca virtuale in cui si rifugiano i clandestine dell’incontro. C’è un occidente fantasma dietro un’Africa di carne. Ho visto dei bianchi durante la mia permanenza qui a Gulu, ma so perfettamente che sono molti di più. Dove sono tutti? Sono impegnati ad evitare l’incontro, a scrollarsi da dosso il peso della differenza e del salto culturale. È la gente che non saluta, gente che porta troppo occidente con , senza lasciare spazio per altro e per l’altro. Il rischio è quello di scivolare in questo mondo parallelo, in cui si entra solo con un passaporto infalsificabile: la pelle bianca. La decisione dello stile di vita dell’esperienza, sta però a monte. Si decide prima di partire da che parte stare. Si tratta poi, di essere fedele alla scelta fatta. Nel mio piccolo, ho cercato di essere fedele alla mia scelta di stare con la gente, con qualche eccezione per una birra ogni tanto. La mia esperienza di tirocinio, lo dico qualche minuto prima di lasciare questa città, è stata soprattutto vissuta nei villaggi, tra le capanne e il fango. La stagione delle piogge regala degli sfoghi della natura, durante i quali si può scorgerne una potenza che ci sorpassa. Dietro di però, lascia strade impercorribili di fango rosso scivoloso come neve, ma qui le catene non bastano. È un fango che resta addosso, ti colora la pelle e i vestiti. Li riconosci subito i bianchi che stanno con la gente. Non dagli occhi, non dai vestiti, non dallo zaino, ma dai piedi. I loro sandali sono inguardabili, ma carichi di strada fatta. Le loro unghie sono rosse e sporche e, non di rado, sono piedi feriti. Certo, sono piedi, che non possono essere paragonati a quelli degli africani, callosi, neri, e pieni di cicatrici. Sono piedi piatti, abituati al contatto con la terra, il fango, l’acqua, le pietre e le spine. Sono piedi che camminano liberi da restrizioni e senza protezioni. I loro, sono piedi esperti. Camminano nudi per sentieri che, solo i loro occhi possono vedere. Sono prospettive misteriose all’occidentale. Pur nelle enormi differenze, questi piedi sono il simbolo dell’incontro.
Piedi bianchi, fragili e insicuri, e piedi neri, esperti e temprati. Piedi che hanno camminato perché’ gli occhi potessero incontrarsi. Sono piedi al servizio. Lavoro davvero faticoso e sporco il loro, ma assolutamente indispensabile. Ora torno, con i mie sandali sporchi ancora addosso, e con gli stessi piedi, mi auguro sempre di compiere passi d’incontro… ovunque io vada.
…e anche a voi va questo augurio.
Diego

sabato 2 maggio 2009

Apwojo ba lutuwa

Questa è la seconda lettera scritta ad amici, solo per condividere ciò che stava nascendo ai piedi di un grande albero di mango.

Apwojo ba lutuwa!

Questa è la frase che uso per salutare la gente che conosco, e così saluto anche il gruppo che sta nascendo, in una piccola capanna di Kirombe, a qualche chilometro da Gulu town. Qui la gente usa solo “afojo ba”, ma a me, piace aggiungere; “lutuwa”, che significa: “my people”. In italiano non suona bene, ma in inglese già è meglio. “Hi my people”. La gente resta meravigliata quando lo dico. Primo, perché pochi bianchi s’interessano della lingua acholi. Secondo, per il mio accento. Sembra che io abbia un accento particolarmente acholi, simile all’originale. Terzo, perché dico a loro che sono la mia gente. Molti ridono di gusto e stringendomi la mano ripetono più volte: “lutuwa, lutuwa, lutuwa”. Vi voglio raccontare come le cose cambiano, e come non sia possibile pensare di arrivare in una terra straniera con progetti già fatti. Almeno, non è possibile per me. Non è possibile idealizzare dai banchi dell’università. Qui si incontrano, volti, storie, persone, e le persone non sono idee. Qui, il mio entusiasmo di carta deve fare i conti con una realtà di carne. Dopo un primo momento di smarrimento, dopo aver visto saltare tutte le mie idee e le mie certezze, ecco un fiore imprevisto. Prima di partire, dissi che la serendipità, sarebbe stata il tratto caratteristico, la stella polare, o meglio, la croce del sud, il punto cardinale al quale orientare la mia esperienza africana…ed ecco mantenuta l’unica promessa che mi era permesso di pensare! La mia storia si è incrociata per un attimo, per una combinazione di eventi, con la storia di Geoffrey, un ex bambino soldato, rapito dai ribelli della LRA (Lord Resintance Army) nel 1995. Quel giorno Geoffrey mi parlò per più tre ore della sua vita con i ribelli. Una storia di violenze, di crudeltà, di assurdità, a cui però non è consentito di far scrivere l’ultima parola alla sofferenza. Dopo quell’incontro, sono andato più volte a trovare Geoffrey. Abita a Kirombe, un villaggio poco distante dalla sede dell’ente a cui faccio riferimento. Tutto nasce in una capanna color argilla, senza luce, senz’acqua e lontana anni luce dal “già pensato”. Sotto un grande albero di mango, qualcosa di fragile sta prendendo vita. Da due persone, si è passati a sette in poco tempo. Il gruppo è formato da cinque ragazzi e una ragazza (moglie di Geoffrey), accomunati dalla stessa esperienza, cioè, quella di essere stati rapiti dai ribelli della LRA e costretti a diventare bambini soldato. Il settimo sono io, che tento goffamente di condividere con loro un briciolo di speranza. Sono più di cento le persone che vivono questa situazione e Geoffrey è in grado di contattarle tutte. Abbiamo questa fortuna. Geoffrey era un leader nel bush, e non mi è difficile immaginarlo. Ha delle doti da trascinatore, da guida, e poi è il più anziano di tutti, o “musè”, come dicono qua. Ha 26 anni, ma sembra ne abbia molti di più. Il problema è complesso. Questi ragazzi hanno fatto la guerra. Sono vite abituate alla guerra e a lottare per sopravvivere, a uccidere per non morire. Oggi queste vite lottano per esistere, per dimostrare alla propria gente, e a se stessi, che sono ancora capaci di amare nonostante tutto. La guerra per loro non è finita. Ogni notte combattono con i fantasmi di attacchi e aggressioni, di mutilazioni, di massacri che sono stati costretti a commettere. E quando il sole sorge, una nuova guerra è lì, pronta ad aspettarli fuori dalla porta di latta della loro capanna di fango e paglia. E’ la lotta contro la discriminazione, la segregazione, l’esclusione sociale. I loro racconti sono talmente crudi da farmi venire la nausea. Mi manca l’aria! Vorrei lavarmi per togliere da dosso tutte quelle brutture ma…non serve. Quella violenza mi si attacca dentro, come la polvere rossa di queste strade si appiccica alla pelle, ai vestiti, tra i denti. Vi parlavo di odore…beh, questa violenza è talmente densa da poterne sentire l’odore. E’ da questa polvere che partiamo. Insieme abbiamo deciso di accettare una sfida che parte dal basso di questa terra rossa. Umanamente parlando, qui, non c’è nulla di più basso. Non potevo immaginare nulla di così essenziale; ci sono solo brandelli di speranza, e da qui si parte. Un unico punto di partenza che ha dei nomi che vi voglio dire: Richard, Charles, Dennis, Daniel, Geoffrey, Nighty e Diego…ecco tutto quello che abbiamo. Sì, è vero, può sembrare poco se si guarda con frettolosa superficialità, ma se solo si rallentano i ritmi, ci si accorge del bello che c’è e che può emergere. Quando si è abituati a vedere vite sfigurate si ha bisogno di ricercare la bellezza. Sono occhi che devono essere riabilitati al bello. Penso ci siano 2 motivi che ci impediscono di cogliere la bellezza; uno è la distrazione, e questo è un aspetto che riguarda me in prima persona. L’altro è la proibizione, che riguarda queste sei vite. Proibizione perché qualcuno ha vietato a loro di poter immergersi nel bello che spetta di diritto ad ogni esistenza. A Kirombe ho incontrato poi un gruppo appena nato (1° giugno 2008) voluto dal DCO, un organo governativo a livello locale, che si è reso conto dell’enormità di problemi che i “returnees” (i ritornati dal bush) devono affrontare. Ho partecipato ad un meeting formalissimo, in cui sono stato introdotto a livello ufficiale. Il cheirman del DCO mi ha invitato a collaborare con loro, a lavorare insieme, “mano nella mano” come ha detto lui. Ha detto che erano felici della mia presenza perché ero il primo bianco, tra tutte le promesse delle Ngo’s, che si era degnato di presenziare ad un incontro. Lusinghe di circostanza, ma con un fondo di verità, ovvero, le promesse non mantenute di alcune organizzazioni. La sede del meeting è la solita: sotto un grande albero di mango, con un diversivo; un cielo che minacciava la fine mondo. Il gruppo si chiama: LAYIBI DIVISION WAR AFFECTED YOUTH GROUP, formato, sulla carta da quaranta persone, ma nella realtà sono ventotto. Capite adesso perché i meeting durano tre ore…ci vuole un quarto d’ora solo per dire il nome del gruppo. Hanno attività che faticano a prender ritmo, come i lavori con l’alluminio, la carpenteria, il lavoro di tessitura ecc. Al di la di tutto, penso sia una bella opportunità, per me, per noi, una sfida da cogliere. Finito l’incontro, lanciai una proposta a tutti quegli occhi che mi guardavano severi e attenti. Presi la parola e si fece un silenzio imbarazzante, quasi dovessi proclamare il discorso di fine anno a reti unificate. Mi guardai attorno con un mezzo sorriso e dissi: “Quando facciamo un partitone a calcio?” In due secondi il clima si trasformò radicalmente. Ci fu un vero e proprio boato, stile gol di Grosso nella semifinale dei mondiali del 2006 contro la Germania. Gente che saltava, che rideva, che lanciava urla di gioia. Ecco come gli ex ribelli della LRA si erano trasformati in bambini festosi.Per un secondo si è respirata tutta la bellezza dell’infanzia, quella che non hanno potuto vivere. Anche qui, niente basi pre-programmate, niente grandi discorsi. Partiamo da un sorriso. Domenica 3 Agosto, ore 16:00 al campo del Layibi Distrisct, ci sarà il grande match.

Vi abbraccio tutti

Apwojo ba lutuwa

mercoledì 29 aprile 2009

Ascolta, taci e respira


Mi sento un po’ perso, l’Africa ha questo potere. Il potere di far sentire piccoli piccoli.
Sarà forse per via della grandezza del suo cielo, e per l’estensione della sua terra rossa.
Che cosa puoi fare davanti a tanta libertà di sguardo e di respiro? Penso che l’Africa sia proprio una terra, che prima di ogni altra cosa, sia terra da respirare. L’odore è acre e dolce allo stesso momento. Odore che respinge e attira. Odore di legna arsa dalle donne per preparare il cibo, odore di nafta e petrolio delle macchine e dei camion che corrono per le strade alzando nubi di tempesta. E’ l’odore a volte irruente a volte gentile del mercato che, al solo sguardo, sembra riassumere una filosofia ancestrale che da senso a tutto quell’ordine imperfetto o a quel disordine perfetto. E’ l’odore della gente che lavora, che cammina, che aspetta paziente, che celebra, che vive. E’ l’odore dei bambini che giocano, delle donne che sorridono, dei mercanti che attendono. E’ l’odore del tempo che ha una sua dimensione indomabile e imprevedibile. Qui tutto ha un suo odore; la pioggia, il sole la terra, la sera, il mattino, le stelle, il silenzio e a me non resta che respirare a pieni polmoni questo odore frizzante che è l’unico vero colore dell’Africa mai dipinto.
Mi trovo a Gulu, nel nord dell’Uganda. “La perla d’Africa”, ecco com’è chiamata questa terra.
E’ una terra bellissima, ricca di vegetazione. Fertile, questo è l’aggettivo giusto per descriverla. L’Africa è donna fertile, è mamma per eccellenza, è dispensatrice di vita in abbondanza.
Una vita che troppo spesso è calpestata, disprezzata, imbruttita da logiche di potere che vengono da lontano, tanto da non vederne il principio. Non mi dilungo sulla situazione di questo paese perché l’ho già descritta nella mia prima lettera qualche giorno prima di partire.
Cosa dirvi? Qui, dopo più di 20 anni di conflitto e violazione di diritti umani, si comincia a respirare un clima di positività, ma in punta di piedi. La gente è diffidente, non ha il coraggio di gridare con tutta la voce che la guerra è finita. I trattati di pace non sono stati firmati, e qualcuno dice che, probabilmente, non lo saranno mai. Questo popolo però, lentamente sta alzando la testa, si sta riprendendo poco a poco la libertà di abitare e di esistere la propria terra. Io comunque mi sento a disagio nel condurre la mia ricerca, devo dirvi la verità e sapete perché? Qui ci sono circa di 300 organizzazioni, tra quelle internazionali, locali, non governative, donor ecc. Sono tantissime! Tutti hanno progetti da portare avanti, tutti cercano soluzioni, sembrano avere l’abito e l’ambito giusto per “salvare” questo popolo.
Ma cosa fanno tutti qui? Perché cosi tanti?
Io non faccio altro che aumentare di una singola unità questa già abbondante lista.
Mamma mia! Alcune persone con cui ho parlato sono molto critiche a riguardo. Dicono che tutta questa costellazione di organizzazioni ha creato solo dipendenza, per via della loro politica assistenzialistica.
La gente, soprattutto quella dei campi IDP, è diventata “Lazy”, pigra.
E’ abituata ad alzare le mani e non le maniche, ad alzare le braccia e non la testa.
La politica governativa vigente è quella di incoraggiare la gente dei campi a tornare nei propri villaggi d’origine. Sapete come fa per invogliarli? Dona ad ogni famiglia un paio di lamierine per costruirsi il tetto della capanna! Bello no?! Praticamente, dopo più di 20 anni di assenza dalla loro terra immersa per decine di chilometri nel bush, nella boscaglia, il governo regala due pezzettini di “ondulus” come supporto e incoraggiamento.
..mmm, che gola che mi fa! E chi non accetterebbe di andare a vivere in mezzo a una boscaglia senza possibilità di cure mediche, senza strade, senza scuole, senz’acqua e senza servizi di nessun tipo ma con due lamierine da portare per chilometri sulla testa? Solo un pazzo non accetterebbe!
Potrei raccontarvi ancora un po’ di aneddoti di questo tipo ma preferisco raccontarvi i volti che ho incontrato. Mi riferisco specialmente all’incontro con una ragazza sul bus che dalla capitale Kampala mi ha portato in poco più di sei ore qui a Gulu.
E’ l’episodio delle due banane.
La pace, l’accoglienza e l’alleanza con lo straniero, qui passa da due banane.
Il viaggio è durato tantissimo anche perché a ogni villaggio incontrato il bus si fermava e veniva assalito da venditori che proponevano di tutto, da frutta, spiedini di non so cosa, bibite, platani arrostiti ecc. Quattro sedili davanti a me c’era una ragazza molto bella, con delle lunghe treccine raccolte da un pezzo di stoffa colorato. Ogni tanto si girava e abbozzava un timido sorriso. Erano i primi segni di accoglienza al “Muzungu” (uomo bianco), allo straniero. A un certo punto la ragazza, allungò un braccio verso di me. In mano aveva un pezzo di cassava che aveva comprato dal finestrino del bus, in una delle tante soste. All’inizio non sapevo se il suo gesto fosse rivolto a me o a qualcuno vicino a me. Il bus era pienissimo e c’era anche gente in piedi, quindi potevo anche non essere il destinatario. Poi, allungai timidamente la mano e lei si aprì in un sorriso bianco come poche altre cose al mondo.
Presi la cassava e la mangiai ringraziando più volte.
Dopo altre due soste, la ragazza si girò nuovamente verso di me, ma io stavo guardando altrove, così fui avvertito dalla signora che mi sedeva accanto. Senza parlare la signora mi toccò con due dita il gomito e indicò la ragazza con l’indice semichiuso. Questa volta aveva in mano due banane. Io mi sentivo imbarazzato, ma mi alzai ugualmente e facendomi un po’ di spazio tra la ressa, le presi ringraziando la ragazza per le sue premure.
Dopo averle contemplate, meravigliato le mangiai.
La signora accanto a me, con voce sottile mi disse:
“Sai cosa vuol dire questo?”
Io risposi un po’ stupito: “beh…n..no”.
“E’ un segno di pace. Nella nostra cultura (Acholi) è segno di alleanza con l’ospite.
Quando viene un ospite a casa a visitarti, come prima cosa, usciamo nel cortile, tagliamo delle banane e le offriamo all’ospite. Con questo gesto la ragazza ti ha fatto capire che tu si sei benvenuto in questa terra”.
E noi in Italia cosa facciamo? Sarà il caso di cominciare a coltivare delle piante di banana?
Ecco il primo spiazzante benvenuto che questa terra mi ha riservato.
Ora basta, è buio, e la notte africana non manca di generosità. Insieme al canto di animali che posso solo affidare alla mia immaginazione per vederne la forma, si accendono miliardi di stelle e tra questa moltitudine brilla anche la croce del sud.
Buona notte
Afojo Matek