martedì 26 maggio 2009

La "Casita"

Negli ultimi 20 anni, gli studi condotti sul concetto di resilienza sono aumentati.
La resilienza suscita un forte interesse e ha permesso agli educatori e pedagogisti interessati di disporre di una più ampia bibliografia, soprattutto in inglese e in francese. Attualmente la letteratura internazionale mostra come in molte parti del mondo, dal Cile all’India, da Taiwan alla Francia, dal Libano alla costa D’Avorio, dal Rwanda alla Bosnia Erzegovina, i temi connessi allo studio delle situazioni di alta vulnerabilità e alle possibili forme di aiuto, contemplano
il concetto di resilienza come uno dei fondamentali punti di vista dai quali procedere per favorire processi di reintegrazione. Le esperienze dei protagonisti, che da molti anni operano in zone di guerra sono state rilette e interpretate e hanno portato e hanno portato alla definizione di alcuni modelli applicativi. Sono sostanzialmente due: il modello francofono realizzato dal Bureau Catholique International de l’Enfance (BICE) di Ginevra, ovvero la Casita, e il modello anglosassone della Fondazione Bernard van Leer. Secondo Stefan Vanistendael (1994), responsabile del settore di ricerca e sviluppo e deputato del Segretariato Generale della BICE, la resilienza ha due componenti fondamentali:
- La resilienza alla distruzione e la possibilità di preservare l’integrità nonostante circostanze difficili
- la capacità di costruire positivamente la propria vita nonostante le situazioni difficili
La BICE ha cercato di elaborare una sintesi, un modello ad uso dei professionisti, utilizzata per la prima volta in Cile, ecco perché è stata chiamata “Casita (piccola casa) . Questo modello è utile a descrivere eventi e orientarsi.
La Casita è una sintesi di alcune tappe che, secondo Vanistendael, meritano un po’ di attenzione per coloro che desiderano costruire o rafforzare un processo di resilienza.
Ecco come è composta la Casita:
Il Suolo: corrisponde alla soddisfazione dei bisogni primari come l’alimentazione il sonno, protezione ecc.
Le Fondamenta: sono costituite dall’accettazione totale della persona ( nella misura possibile). E’ la possibilità di usufruire di contatti informali di una rete delle relazioni solidali (famiglia, amici e vicini ). È in buona sostanza un percorso di accoglienza.
Il Giardino: Qui si trova la capacità di scoprire un senso una coerenza del proprio percorso di vita. Lo si può fare attraverso il gioco, lo studio, il lavoro.
Il Primo piano: E’ in quest’area che si trovano la stima di sé, le attitudini le competenze l’humour. È la possibilità di progettare, di vedersi nel futuro. Aumenta la partecipazione e promuove la responsabilità del proprio agire e essere.
Il Granaio: Qui sono collocate tutte le altre esperienze da scoprire, a seconda del contesto .
Ecco in breve la casita, nel raccontare mi sono aiutato con un testo di Elena Malaguti, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, “Educarsi alla Resilienza” (Erikson). Lo consiglio a chi volesse saperne di più sul concetto di resilienza.
Buon approfondimento
Gigo

mercoledì 13 maggio 2009

Vivere da resilienti

Sono passati ormai otto mesi dal mio rientro dall'Africa e tutte le esperienze, gli incontri e le vite sfiorate prendono altre colorazioni. Oggi devo pensare alla tesi, ma non è facile per me trasformare in “scienza” o tradurre in linguaggio tecnico ciò che è veramente stato. Io le cose preferisco raccontarle, scriverle, lasciare che le parole scorrano nomadi, tentando di dare
sapore ai miei sentimenti. Le parole hanno davvero una forza grande, riescono a compiere cammini che pochi altri posso percorrere. Preferisco narrare, con la penna e la carta, storie realmente accadute o semplicemente descrivere ciò che provo e che vedo. Anche la scrittura necessita di una tecnica ma, al mio livello, è decisamente più libera e anarchica ...Ma torniamo alla tesi.
Il punto focale della tesi è il concetto di “resilienza” , parola presa i prestito dalla fisica, che sta ad indicare la capacità di un corpo di mantenere la sua forma anche dopo aver subito un urto improvviso e violento. É un concetto ripreso dalla psicologia e successivamente dalla pedagogia, e riferito all'essere umano suonerebbe così:
“è il processo che permette la ripresa di uno sviluppo possibile dopo una lacerazione traumatica e nonostante la presenza di circostanze avverse (Boris Cyrulnik),
oppure ancora:
“ è la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l'aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare a un esito negativo (Elena Malaguti).
Mi sembra interessante approfondire questa tematica proprio perchè le persone con cui ho condiviso del tempo, avevano subito fortissimi traumi: la guerra.
Ex bambini soldato, vittime e carnefici unificati nello stesso essere. Possiamo parlare tranquillamente di un doppio trauma. Ci sono dei modelli che possono essere applicati dagli educatori. Quando parlo di educatori, parlo di persone che non si muovono per puro spirito “vocazionale” verso l'altro, non parlo di volontari improvvisati ( con tutta la stima per questi ultimi). Con il temine educatore mi riferisco ad una figura professionale, che abbia compiuto un cammino personale di crescita umana, utilizzando gli stessi mezzi appresi negli anni di studio,e che un giorno tenterà rispettosamente di utilizzare, conformandoli alla irripetibile soggettività di un altro essere umano. Nel prossimo post cercherò di raccontare un modello pedagogico fondato sul concetto di resilienza... “LA CASITA”, che è quello che ho cercato di seguire, adattandolo alla situazione di Gulu.

giovedì 7 maggio 2009

Solo un momento prima di lasciare Gulu


Questi sono gli ultimi pensieri scritti appena prima di lasciare la città che mi ha ospitato per un breve periodo...troppo breve. Sono pensieri che prendono forma seduto dentro un internet poin di Gulu town. Dalla porta vedo molte immagini e penso...

Ho dato l’ultimo sguardo a questa città cosi “africana”, e sento di provare già nostalgia. Lascio una città che penso d’aver vissuto e non solo sfiorato. La verità è che, puoi essere in Africa senza vivere l’Africa. Non sono molti, ma se vuoi, puoi frequentare locali per bianchi, con feste per bianchi e cibo per bianchi, dove puoi avere anche l’illusione che, alla fine, essere in Europa o essere in Africa , non cambia poi tanto. C’è una sorta di città bianca virtuale in cui si rifugiano i clandestine dell’incontro. C’è un occidente fantasma dietro un’Africa di carne. Ho visto dei bianchi durante la mia permanenza qui a Gulu, ma so perfettamente che sono molti di più. Dove sono tutti? Sono impegnati ad evitare l’incontro, a scrollarsi da dosso il peso della differenza e del salto culturale. È la gente che non saluta, gente che porta troppo occidente con , senza lasciare spazio per altro e per l’altro. Il rischio è quello di scivolare in questo mondo parallelo, in cui si entra solo con un passaporto infalsificabile: la pelle bianca. La decisione dello stile di vita dell’esperienza, sta però a monte. Si decide prima di partire da che parte stare. Si tratta poi, di essere fedele alla scelta fatta. Nel mio piccolo, ho cercato di essere fedele alla mia scelta di stare con la gente, con qualche eccezione per una birra ogni tanto. La mia esperienza di tirocinio, lo dico qualche minuto prima di lasciare questa città, è stata soprattutto vissuta nei villaggi, tra le capanne e il fango. La stagione delle piogge regala degli sfoghi della natura, durante i quali si può scorgerne una potenza che ci sorpassa. Dietro di però, lascia strade impercorribili di fango rosso scivoloso come neve, ma qui le catene non bastano. È un fango che resta addosso, ti colora la pelle e i vestiti. Li riconosci subito i bianchi che stanno con la gente. Non dagli occhi, non dai vestiti, non dallo zaino, ma dai piedi. I loro sandali sono inguardabili, ma carichi di strada fatta. Le loro unghie sono rosse e sporche e, non di rado, sono piedi feriti. Certo, sono piedi, che non possono essere paragonati a quelli degli africani, callosi, neri, e pieni di cicatrici. Sono piedi piatti, abituati al contatto con la terra, il fango, l’acqua, le pietre e le spine. Sono piedi che camminano liberi da restrizioni e senza protezioni. I loro, sono piedi esperti. Camminano nudi per sentieri che, solo i loro occhi possono vedere. Sono prospettive misteriose all’occidentale. Pur nelle enormi differenze, questi piedi sono il simbolo dell’incontro.
Piedi bianchi, fragili e insicuri, e piedi neri, esperti e temprati. Piedi che hanno camminato perché’ gli occhi potessero incontrarsi. Sono piedi al servizio. Lavoro davvero faticoso e sporco il loro, ma assolutamente indispensabile. Ora torno, con i mie sandali sporchi ancora addosso, e con gli stessi piedi, mi auguro sempre di compiere passi d’incontro… ovunque io vada.
…e anche a voi va questo augurio.
Diego

sabato 2 maggio 2009

Apwojo ba lutuwa

Questa è la seconda lettera scritta ad amici, solo per condividere ciò che stava nascendo ai piedi di un grande albero di mango.

Apwojo ba lutuwa!

Questa è la frase che uso per salutare la gente che conosco, e così saluto anche il gruppo che sta nascendo, in una piccola capanna di Kirombe, a qualche chilometro da Gulu town. Qui la gente usa solo “afojo ba”, ma a me, piace aggiungere; “lutuwa”, che significa: “my people”. In italiano non suona bene, ma in inglese già è meglio. “Hi my people”. La gente resta meravigliata quando lo dico. Primo, perché pochi bianchi s’interessano della lingua acholi. Secondo, per il mio accento. Sembra che io abbia un accento particolarmente acholi, simile all’originale. Terzo, perché dico a loro che sono la mia gente. Molti ridono di gusto e stringendomi la mano ripetono più volte: “lutuwa, lutuwa, lutuwa”. Vi voglio raccontare come le cose cambiano, e come non sia possibile pensare di arrivare in una terra straniera con progetti già fatti. Almeno, non è possibile per me. Non è possibile idealizzare dai banchi dell’università. Qui si incontrano, volti, storie, persone, e le persone non sono idee. Qui, il mio entusiasmo di carta deve fare i conti con una realtà di carne. Dopo un primo momento di smarrimento, dopo aver visto saltare tutte le mie idee e le mie certezze, ecco un fiore imprevisto. Prima di partire, dissi che la serendipità, sarebbe stata il tratto caratteristico, la stella polare, o meglio, la croce del sud, il punto cardinale al quale orientare la mia esperienza africana…ed ecco mantenuta l’unica promessa che mi era permesso di pensare! La mia storia si è incrociata per un attimo, per una combinazione di eventi, con la storia di Geoffrey, un ex bambino soldato, rapito dai ribelli della LRA (Lord Resintance Army) nel 1995. Quel giorno Geoffrey mi parlò per più tre ore della sua vita con i ribelli. Una storia di violenze, di crudeltà, di assurdità, a cui però non è consentito di far scrivere l’ultima parola alla sofferenza. Dopo quell’incontro, sono andato più volte a trovare Geoffrey. Abita a Kirombe, un villaggio poco distante dalla sede dell’ente a cui faccio riferimento. Tutto nasce in una capanna color argilla, senza luce, senz’acqua e lontana anni luce dal “già pensato”. Sotto un grande albero di mango, qualcosa di fragile sta prendendo vita. Da due persone, si è passati a sette in poco tempo. Il gruppo è formato da cinque ragazzi e una ragazza (moglie di Geoffrey), accomunati dalla stessa esperienza, cioè, quella di essere stati rapiti dai ribelli della LRA e costretti a diventare bambini soldato. Il settimo sono io, che tento goffamente di condividere con loro un briciolo di speranza. Sono più di cento le persone che vivono questa situazione e Geoffrey è in grado di contattarle tutte. Abbiamo questa fortuna. Geoffrey era un leader nel bush, e non mi è difficile immaginarlo. Ha delle doti da trascinatore, da guida, e poi è il più anziano di tutti, o “musè”, come dicono qua. Ha 26 anni, ma sembra ne abbia molti di più. Il problema è complesso. Questi ragazzi hanno fatto la guerra. Sono vite abituate alla guerra e a lottare per sopravvivere, a uccidere per non morire. Oggi queste vite lottano per esistere, per dimostrare alla propria gente, e a se stessi, che sono ancora capaci di amare nonostante tutto. La guerra per loro non è finita. Ogni notte combattono con i fantasmi di attacchi e aggressioni, di mutilazioni, di massacri che sono stati costretti a commettere. E quando il sole sorge, una nuova guerra è lì, pronta ad aspettarli fuori dalla porta di latta della loro capanna di fango e paglia. E’ la lotta contro la discriminazione, la segregazione, l’esclusione sociale. I loro racconti sono talmente crudi da farmi venire la nausea. Mi manca l’aria! Vorrei lavarmi per togliere da dosso tutte quelle brutture ma…non serve. Quella violenza mi si attacca dentro, come la polvere rossa di queste strade si appiccica alla pelle, ai vestiti, tra i denti. Vi parlavo di odore…beh, questa violenza è talmente densa da poterne sentire l’odore. E’ da questa polvere che partiamo. Insieme abbiamo deciso di accettare una sfida che parte dal basso di questa terra rossa. Umanamente parlando, qui, non c’è nulla di più basso. Non potevo immaginare nulla di così essenziale; ci sono solo brandelli di speranza, e da qui si parte. Un unico punto di partenza che ha dei nomi che vi voglio dire: Richard, Charles, Dennis, Daniel, Geoffrey, Nighty e Diego…ecco tutto quello che abbiamo. Sì, è vero, può sembrare poco se si guarda con frettolosa superficialità, ma se solo si rallentano i ritmi, ci si accorge del bello che c’è e che può emergere. Quando si è abituati a vedere vite sfigurate si ha bisogno di ricercare la bellezza. Sono occhi che devono essere riabilitati al bello. Penso ci siano 2 motivi che ci impediscono di cogliere la bellezza; uno è la distrazione, e questo è un aspetto che riguarda me in prima persona. L’altro è la proibizione, che riguarda queste sei vite. Proibizione perché qualcuno ha vietato a loro di poter immergersi nel bello che spetta di diritto ad ogni esistenza. A Kirombe ho incontrato poi un gruppo appena nato (1° giugno 2008) voluto dal DCO, un organo governativo a livello locale, che si è reso conto dell’enormità di problemi che i “returnees” (i ritornati dal bush) devono affrontare. Ho partecipato ad un meeting formalissimo, in cui sono stato introdotto a livello ufficiale. Il cheirman del DCO mi ha invitato a collaborare con loro, a lavorare insieme, “mano nella mano” come ha detto lui. Ha detto che erano felici della mia presenza perché ero il primo bianco, tra tutte le promesse delle Ngo’s, che si era degnato di presenziare ad un incontro. Lusinghe di circostanza, ma con un fondo di verità, ovvero, le promesse non mantenute di alcune organizzazioni. La sede del meeting è la solita: sotto un grande albero di mango, con un diversivo; un cielo che minacciava la fine mondo. Il gruppo si chiama: LAYIBI DIVISION WAR AFFECTED YOUTH GROUP, formato, sulla carta da quaranta persone, ma nella realtà sono ventotto. Capite adesso perché i meeting durano tre ore…ci vuole un quarto d’ora solo per dire il nome del gruppo. Hanno attività che faticano a prender ritmo, come i lavori con l’alluminio, la carpenteria, il lavoro di tessitura ecc. Al di la di tutto, penso sia una bella opportunità, per me, per noi, una sfida da cogliere. Finito l’incontro, lanciai una proposta a tutti quegli occhi che mi guardavano severi e attenti. Presi la parola e si fece un silenzio imbarazzante, quasi dovessi proclamare il discorso di fine anno a reti unificate. Mi guardai attorno con un mezzo sorriso e dissi: “Quando facciamo un partitone a calcio?” In due secondi il clima si trasformò radicalmente. Ci fu un vero e proprio boato, stile gol di Grosso nella semifinale dei mondiali del 2006 contro la Germania. Gente che saltava, che rideva, che lanciava urla di gioia. Ecco come gli ex ribelli della LRA si erano trasformati in bambini festosi.Per un secondo si è respirata tutta la bellezza dell’infanzia, quella che non hanno potuto vivere. Anche qui, niente basi pre-programmate, niente grandi discorsi. Partiamo da un sorriso. Domenica 3 Agosto, ore 16:00 al campo del Layibi Distrisct, ci sarà il grande match.

Vi abbraccio tutti

Apwojo ba lutuwa